201710.12
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Nelle ultime settimane sono apparsi numerosi articoli a commento della sentenza recentemente resa dalle Sezioni Unite della Cassazione, ovvero la sentenza Cass., 5 luglio 2017, n. 16601.

In non pochi casi, la decisione è stata descritta come una sentenza rivoluzionaria destinata a stravolgere l’approccio dei Tribunali nostrani che avrebbero ora il potere – grazie alla decisione delle S.U. – di comminare (in sede civile) “ pene economiche esemplari” volte, cioè, non semplicemente a risarcire il danno patito, ma piuttosto a “punire” il responsabile dell’illecito con la condanna al pagamento di somme ben superiori al danno economico arrecato e capaci, quindi, di diventare non solo uno strumento di deterrenza, ma una vera e propria misura sanzionatoria. Da qui il nome “danni punitivi” che ha radici nell’istituto di matrice anglosassone chiamato, per l’appunto, “punitive damages”.[1]

Prima di analizzare la sentenza, va ricordato  che la giurisprudenza ha fino ad oggi sempre escluso che nel nostro sistema giuridico potesse trovare spazio la figura del danno punitivo.[2]  Si sostiene infatti che negli ordinamenti moderni “(…) i profili afflittivi, punitivi o sanzionatori siano di preferenza affidati al diritto penale o amministrativo” e che nell’Europa continentale l’idea di “danno punitivo” nel settore civilistico possa al più essere circoscritta ad una particolare componente del danno, ovvero quella del danno non patrimoniale o morale[3].

Con la pronuncia in esame si assiste, invece, ad un cambio di rotta, o quantomeno, ad un’apertura verso un istituto che fino ad oggi non aveva trovato spazio nel nostro ordinamento. Per evitare tuttavia di incappare in falsi sensazionalismi, va precisato fin da subito che questa decisione non ha propriamente introdotto l’istituto del danno punitivo nel nostro ordinamento, ma ha piuttosto (e più limitatamente) previsto che in tema di riconoscimento delle sentenze straniere[4], le decisioni che contengono una condanna ai risarcimenti punitivi non sono più categoricamente “non delibabili” e possono quindi ottenere efficacia nell’ordinamento italiano.

Per meglio comprendere i contorni della pronuncia della Cassazione ripercorriamo per sommi capi i fatti che hanno condotto al procedimento esaminato dalle Sezioni Unite.

La vertenza ha avuto ad oggetto il riconoscimento e l’esecuzione in Italia di tre sentenze statunitensi  con cui la società AXO Sport  (produttrice di caschi per motociclisti) è stata condannata a versare la somma di circa un milione e mezzo di dollari (oltre ad altre ingenti somme a titolo di costi e spese legali) a favore della società distributrice americana  NOSA Inc. che, a sua volta, era stata chiamata in giudizio da un pilota che aveva subito ingenti danni fisici a seguito di un incidente avvenuto durante una gara di motocross e di un lamentato difetto del caso prodotto da AXO e rivenduto da NOSA.

In sede transattiva, il pilota e NOSA avevano raggiunto un accordo sulla somma da versarsi per i danni lamentati e, successivamente, il giudice americano ha accolto la richiesta della società americana distributrice del casco ritenuto difettoso di essere manlevata dal produttore italiano.

La società americana si è quindi rivolta alla Corte di Appello di Venezia per ottenere ex art. 64, l. 218/1995 la pronuncia di esecutività delle sentenze in Italia. A sua volta, la società italiana AXO si è successivamente rivolta alla Cassazione contestando la pronuncia della Corte di Appello di Venezia. AXO sosteneva infatti che, dando esecutività alle sentenze americane, ne sarebbe conseguita la condanna al pagamento di danni puntivi in contrasto con l’unica tipologia di danno ammessa dall’ordinamento giuridico italiano: quella puramente risarcitoria.

Il ricorso della società AXO è stato tuttavia respinto dalla Cassazione[5] che ha invece – qui la grossa novità – ritenuto che le sentenze straniere in cui sia prevista la condanna a danni punitivi possano avere efficacia nel nostro ordinamento. Per giungere a questa conclusione i giudici hanno innanzitutto chiarito che, nell’ambito della responsabilità civile, trova applicazione la nuova nozione di ordine pubblico che si è andata consolidando negli ultimi anni e che si ritiene debba coincidere con i principi fondamentali tutelati dalla Costituzione.

A ciò si è aggiunto il riconoscimento a chiare lettere della natura “polifunzionale” della responsabilità civile. In altre parole, le sanzioni di stampo civilistico non avrebbero più la sola funzione di riparare il pregiudizio economico subito dal danneggiato attraverso il riconoscimento di una somma sufficiente a porre il danneggiante nella stessa condizione economica esistente prima del verificarsi dell’evento dannoso (natura “monofunzionale” della responsabilità civile). E tra queste nuove funzioni della responsabilità civile (ne sarebbero state individuate ben dieci), troverebbe spazio anche quella della deterrenza, nonché quella sanzionatoria. A questo proposito si legge nella sentenza che “non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”.

Per giungere a questa conclusione, i giudici hanno osservato come siano ormai numerosi gli interventi legislativi (tanto a livello europeo, quanto a livello nazionale) che hanno già introdotto nel nostro sistema normativo forme di risarcimento in qualche modo riconducibili, se non proprio alla figura dei puntitve damages, a quella di strumento di deterrenza e, pertanto, non meramente risarcitorio. E tra queste, la stessa Cassazione, cita tra le altre alcune disposizioni previste dalle norme che regolano il diritto di proprietà industriale e, in particolare, l’art. 125 del Codice di Proprietà industriale e l’art. 158 della legge sul diritto d’autore.

Sul punto è utile ricordare che entrambe le disposizioni normative prevedono come forma particolare di risarcimento la c.d. “retroversione degli utili”. Nel settore della proprietà industriale accade infatti spesso che chi commette un illecito violando il diritto altrui ottenga un vantaggio economico (“utili”) che supera il danno effettivamente arrecato al soggetto leso. Non potendosi quindi tollerare che un contraffattore possa trarre profitto dall’illecito commesso, giurisprudenza e dottrina cercano vie alternative per rimediare ai limiti di efficienza dello strumento meramente risarcitorio. Questo anche in ragione del fatto che “la mancata integrale compensazione del danno da contraffazione, produc(e) un effetto disincentivante delle attività di investimento che la stessa disciplina della proprietà intellettuale intende promuovere[6].

Ciò posto, è da precisare che la scelta operata dal nostro sistema giuridico (e da quello comunitario) non ha assegnato alle disposizioni sanzionatorie previste nel settore della proprietà industriale una funzione di carattere punitivo: si è infatti per lo più sempre sostenuto che la previsione della restituzione degli utili  debba essere intesa come uno strumento in grado di assicurare un ristoro effettivo della vittima (attraverso la condanna dell'autore dell'illecito alla restituzione degli utili percepiti in conseguenza della violazione dei diritti di proprietà intellettuale). In altre parole, la restituzione degli utili, pur essendo uno strumento che il legislatore ha introdotto per ampliare i poteri istruttori del giudice, non andrebbe considerato come mezzo per applicare una “sanzione dimostrativa” quale mera conseguenza della commissione dell’illecito[7].  E, infatti, la “determinazione dell’utile deve rimanere soggetta a un tetto massimo, che si colloca al punto nel quale la funzione deterrente, legittima, si trasforma in funzione afflittiva, contraria al sistema[8].

Ed è proprio in quest’ottica che deve essere letta e interpretata la sentenza delle S.U. 2017/16601. Infatti, la Cassazione non ha previsto che il riconoscimento delle sentenze straniere contenenti pronunce di condanna ai danni puntivi possa avvenire senza limiti di sorta. Al contrario, si legge nel testo della decisione che “il riconoscimento di una sentenza che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscono la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi (…)”.

Il riconoscimento della sentenza straniera dovrà, quindi, sempre dipendere da un riconoscimento legislativo che rispecchi esigenti requisiti e, in ogni caso, non dovrà mai contrastare con i principi di ordine pubblico. Per questo pare potersi convenire con chi ha osservato che la sentenza non conferisce “una mediata e indiretta cittadinanza italiana ai punitive damages[9].

Si aggiunga poi che la Cassazione ha anche affermato che i giudici “non possono imprimere accentuazioni soggettive ai risarcimenti che vengono liquidati”. In questo senso, rimane quindi saldo il principio che vincola il giudice al criterio-guida della riparazione del danno.

Ciò comporta che, anche nel caso in cui vi sia una norma di legge a prevedere la comminazione dei punitive damages, andrà comunque verificato che sia stato rispettato il principio di proporzionalità “tra risarcimento riparatorio – compensativo e risarcimento punitivo e, tra quest’ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione”. Ne deriva quindi che dovranno comunque essere evitate le condanne a sanzioni eccessive.

Pur con questi limiti, è però plausibile ritenere che, sebbene la sentenza non comporti di per se’ l’automatica adozione dei punitive damages nel nostro ordinamento, l’impatto non potrà essere di sola forma ed è molto probabile che la figura stessa della responsabilità civile andrà mutando negli anni a venire: il segnale delle S.U. sembra infatti indicare che l’ordinamento italiano si accinge a accogliere (o quanto meno dice di voler accogliere) l’istituto dei punitive damages arricchendo la figura classica del risarcimento dei danni di una funzione punitiva .

Nel frattempo, un qualche effetto più diretto potrebbe aversi nel settore della proprietà industriale che contempla già – come sopra accennato – disposizioni che prevedono forme di condanna in chiave, per così dire, di forte deterrenza.  Al di là infatti dei “paletti” che le Sezioni Unite hanno fissato per poter  “aprire la porta” al riconoscimento di sentenze straniere contenenti una condanna ai punitive damages, non si può infatti disconoscere che le imprese operanti in alcune giurisdizioni dovranno premurarsi – ancor più che in passato - di non violare i diritti di proprietà industriale di terzi (si pensi ad esempio ad un brevetto, la cui violazione può comportare l’applicazione di condanne assai gravose) potendo infatti incorre nel rischio, oggi più elevato, di vedersi chiamare in giudizio avanti a un tribunale straniero la cui giurisdizione preveda la possibilità di comminare una condanna per danni punitivi e poi subire, successivamente, la sua esecuzione in Italia.

[1] Sebbene sia ormai diffusamente utilizzata la traduzione “punitive damages”, la definizione forse più corretta sarebbe quella di “risarcimento (a vario titolo) punitivo” poiché capace di comprendere, come sostenuto da C. Consolo e S. Barone, “Punitive damages e ordine pubblico”, Giur. It. 2017, pag. 1367, “danni extracompensatori della più svariata portata semantica e funzionale”.

[2] In questo senso, si è per esempio espressa anche recentemente la Corte d’Appello di Torino con la sentenza 30/2017. I giudici torinesi, rifacendosi al precedente orientamento della Cassazione (diverso, almeno in parte, da quello espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite qui commentata) hanno infatti osservato come, nel nostro ordinamento, alla responsabilità civile sarebbe “assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, anche mediante l'attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tende a eliminare le conseguenze del danno subito, mentre rimane estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta. È quindi incompatibile con l'ordinamento Italiano l'istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali”.

[3] Così si esprime la più autorevole dottrina: M. Ricolfi, Diritto Europeo e nazionale, Giappichelli, 2017, pag. 1398.

[4] Si tratta di un procedimento previsto dalla l. 31 maggio 1995, n.218 (legge sulla riforma del diritto internazionale privato).

[5] La società AXO aveva basato il ricorso su tre motivi. Il terzo motivo (quello più rilevante ai fini di questo commento) era diretto a censurare la sentenza della Corte di Appello di Venezia per aver dato riconoscimento alle sentenze americane nonostante prevedessero, a suo dire, la liquidazione di un danno spropositato inclusivo anche delle pretese risarcitorie avanzate a titolo di punitive damages. Su questo punto si innesta il ragionamento dei giudici della Cassazione volto in qualche modo a ”rispondere” all’ordinanza di rimessione n. 9978/16 che, con ogni probabilità, come scritto da C. Consolo e S. Barone, op. cit., pag. 1366 “avrebbe voluto traghettare le Sezioni Unite verso l’esito ben più radicale per cui tutto ciò che non è costituzionalmente vietato (…), debba ritenersi in linea con l’ordine pubblico internazionale italiano” (ordinanza che avrebbe quindi voluto forzare la mano al sistema per  agevolare l’introduzione tout court dell’istituto dei punitive damages nel nostro ordinamento).

[6] E. Di Sabatino, “Proprietà intellettuale, risarcimento del danno e restituzione del profitto”, in Resp. Civ., 2009, 5, pag. 442.

[7] In linea con questa impostazione, si è sempre ritenuto infatti che attraverso il risarcimento non si debba sfociare in un arricchimento senza giusta causa. È così che la Corte d’Appello di Torino, con sentenza 241/2015 ha, per esempio, ricordato che l’art. 121 c.p.i. pone a carico del titolare del brevetto l'onere di provare la contraffazione e che, in forza dei principi generali, l'onere della prova in ordine ai danni e alla loro entità grava sempre sul danneggiato. L’art. 125 c.p.i. non costituisce pertanto reale eccezione ai principi generali previsti dal Codice Civile in tema di risarcimento del danno (artt. 1223, 1226, 1227).

[8] Così, M. Ricolfi, op. cit., pag. 1403.

[9] C. Consolo e S. Barone, op. cit., pag. 1367.a